Martedì, 22 Ottobre 2019
Relatori conviviali

Interessantissima la conferenza di Raul Pupo che, raccontandoci la storia di una città-simbolo del ‘900, ci ha accompagnato con obiettività e attenta documentazione attraverso le inquiete transizioni europee del secolo scorso. Per rendere meglio il suo intervento, pubblichiamo questa intervista fatta al relatore e pubblicata da www.letture.org):

Quale è l’importanza di Fiume nella storia del Novecento?

È una città simbolo in cui si concentrano alcune delle dinamiche della contemporaneità nell’Europa di mezzo: conflitti nazionali che mettono in crisi le appartenenze di antico regime; passaggio di una città plurale come la Fiume asburgica, da un impero plurinazionale a degli “stati per la nazione”, prima l’Italia e poi la Jugoslavia; ambìta posta della competizione di potenza fra Roma e Belgrado dopo la Grande guerra; palcoscenico della nuova destra europea, moderna ed eversiva, generata dal conflitto e dalla conseguente crisi; oggetto dopo la seconda guerra mondiale di un “urbicidio”, nella forma di un ricambio pressoché completo di popolazione, così come Leopoli e Könisberg ed ancor prima Salonicco e Smirne;  luogo storico del tentativo fallito di alcune migliaia di italiani provenienti dalla Penisola di costruire un’italianità alternativa nella Jugoslavia comunista.

Come si vede, una storia di grande interesse per posteri e studiosi e quindi terribilmente dura da vivere per i fiumani: tant’è che non ce l’hanno fatta ed alla fine se ne sono dovuti andare.

Come si sviluppa la vocazione autonomistica di Fiume sin dalla sua annessione al Regno d’Ungheria quale corpo separato?

Grazie ad un editto dell’imperatrice Maria Teresa, agli inizi del ‘700 Fiume vede confermata la sua autonomia municipale anche all’interno di uno stato asburgico in via di modernizzazione. Alla parte ungherese dell’impero serve un porto da controllare direttamente, così come fa la parte austriaca con Trieste. Gli interessi di Budapest si saldano con quelli di Fiume per costruire un rapporto immediato, che salti le istituzioni del regno di Croazia, il quale pure fa parte della corona magiara ed ambirebbe al possesso della città, finestra sul mare dell’entroterra danubiano. Così Fiume diventa “corpo separato” del regno di Ungheria e comincia un “idillio fiumano-magiaro” che durerà fin quasi alla Grande guerra. La Croazia è costretta a rimanere fuori dalla porta, abbarbicata alla cittadina di Šušak, divisa da Fiume solo dai pochi metri di larghezza della Fiumara.

Alla metà dell’800 sul contrasto di interessi si salderà la competizione nazionale. Per i fiumani, il conflitto non è etnico, perché popolazione e classe dirigente sono di origine composita: italica, mediterranea, slava, ungherese. È un conflitto politico, perché i fiumani difendono la loro volontà di autogoverno; ed è un conflitto identitario, perché i fiumani parlano fin dal medioevo una lingua italica – quella veneta – e si riconoscono nella cultura italiana. La loro quindi è una nazionalità culturale, che può convivere a lungo con un vivace patriottismo istituzionale ungherese. Viceversa, i patrioti croati hanno adottato la concezione etnicista della nazione – “sangue e terra” – e la pretesa dei fiumani di essere tutti italiani sembra loro un atto contro natura.

I fiumani quindi sono ben lieti della protezione ungherese, ma agli inizi del ‘900 il governo di Budapest cerca di avviare una politica di “magiarizzazione”, che riguarda la scuola e l’estensione delle leggi ungheresi senza il preventivo consenso del Comune. Per reazione, nasce a Fiume un partito autonomista, che si batte per la difesa dei privilegi tradizionali e dell’identità italiana, senza però mettere in discussione l’appartenenza all’Ungheria. Tale prospettiva realistica e legalitaria non basterà però ad un piccolo gruppo di giovani, che negli anni successivi darà vita ad un movimento irredentista, avente cioè come obiettivo l’annessione al regno d’Italia.

In che modo Gabriele D’Annunzio impone Fiume all’attenzione internazionale?

D’Annunzio entra a Fiume nel settembre 1919 chiamato dai fiumani, perché alla conferenza della pace le grandi potenze non riescono a trovare un accordo sulla sorte della città. In tal modo attira già l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, perché un poeta con un pugno di seguaci sfida Inghilterra, Francia e Stati Uniti.

D’Annunzio però non va a Fiume per restarci, ma per partire verso una marcia su Roma, con l’obiettivo di imprimere una svolta clamorosa alla politica italiana, abbattendo il governo Nitti – considerato rinunciatario in politica estera – ed avviando una svolta autoritaria nel Paese. Invece, i suoi sostenitori nella classe dirigente e nelle forze armate non se la sentono di andare fino in fondo e nelle elezioni del 1919 gli italiani premiano non l’estrema destra, ma i partiti di massa, socialisti e cattolici.

Isolato a Fiume, D’Annunzio deve inventarsi qualcosa e siccome è uomo di genio, riesce a fare della città una sorta di capitale delle avanguardie europee: l’immaginazione al potere, si potrebbe dire, dove si vivono le esperienze culturali e politiche più estreme. Il nazionalismo diventa mistica della patria (anche 4 frati buttano la tonaca e si fanno dannunziani); la costruzione del consenso passa attraverso il dialogo diretto fra il capo e il popolo (Mussolini e Hitler impareranno bene la lezione); la Carta del Carnaro è un modello costituzionale assai avanzato; l’antislavismo più becero si accompagna alla volontà di liberazione dei popoli oppressi dalle potenze coloniali; l’arditismo diventa uno stile di vita condiviso (con qualche bizzarria, come quelle di Guido Keller, già pilota eroico, naturista, arruolatore di matti, che ha un’aquila per mascotte); la sperimentazione artistica è vita quotidiana, come la festa e la danza (e nei concerti agli strumenti fanno da contrappunto le bombe a mano); per il rifornimento della città si ricorre alla pirateria; l’erotismo (etero ed omo) dilaga e la cocaina pure. Prima del Natale di sangue del 1920, quando il governo italiano caccia D’Annunzio a cannonate, poeta e legionari devono essersi divertiti un mondo. I fiumani all’inizio pure, poi però fame ed eccessi hanno cominciato a stancare la popolazione, che già alla fine del 1919 avrebbe preferito un compromesso che salvaguardasse l’autonomia della città anche senza annessione all’Italia.

Quali vicende segnano la storia dello Stato libero di Fiume?

Ciò che alla grande maggioranza dei fiumani interessa, nel primo dopoguerra, è che la città non venga incorporata nella Croazia, cioè nella Jugoslavia. Quindi, meglio l’Italia, di cui si condivide la nazionalità e per la quale si sono battuti alcuni giovani volontari irredentisti. Ma se l’annessione è difficile, va bene, forse anche di più, uno staterello libero: ciò consentirebbe di salvare l’identità ed anche gli affari, perché è preferibile essere un emporio autonomo del centro Europa che non l’ultimo porto d’Italia. Quindi, partito D’Annunzio, i fiumani apprezzano la creazione di uno stato cuscinetto prevista dal Trattato italo-jugoslavo di Rapallo e nel 1921 nelle urne sostengono il partito autonomista guidato da un leader assai popolare come Riccardo Zanella, che diviene primo ed ultimo presidente dello Stato libero.

Ma non è più tempo di democrazia. A Fiume i voti li hanno gli autonomisti, però nelle piazze imperversano gli ex legionari dannunziani e i fascisti. Il governo di Roma dovrebbe dare una mano per tutelare l’ordine pubblico, invece i carabinieri – ben che vada – guardano dall’altra parte, mentre quello di Belgrado, indebolito dai contrasti fra serbi e croati, è ormai rassegnato a che Fiume diventi italiana. Di conseguenza, quando nel marzo 1922 i fascisti tentano un colpo di stato, hanno gioco facile e Zanella deve fuggire. Poi, per due anni lo Stato libero è retto da un commissario italiano, finché un nuovo accordo italo-jugoslavo, firmato a Roma nel gennaio 1924, sancisce l’annessione di Fiume all’Italia.

Come avviene la transizione da Fiume a Rijeka?

È una transizione drammatica. Ai primi di maggio del 1945 Fiume viene occupata dalle truppe jugoslave ed è evidente che non se ne andranno più. Subito parte una durissima repressione, che non colpisce soltanto i fascisti, ma in genere i patrioti italiani e soprattutto gli autonomisti, fieramente antifascisti ma contrari all’annessione alla Jugoslavia. Poi parte l’epurazione, in cui si procede alla confisca di tutte le aziende private, dalle industrie ai ciabattini.

Nei confronti degli italiani, le autorità dovrebbero applicare la politica della “fratellanza italo-slava”, che però ha molti limiti. Si riferisce solo agli italiani “etnici”, non a quelli di origine slava, che invece devono venire “aiutati” a recuperare la loro identità “originaria” (beninteso, senza il loro consenso). Riguarda solo gli italiani “onesti e buoni”, cioè quelli disposti a mobilitarsi per l’annessione alla Jugoslavia e la costruzione del comunismo, battendosi contro il governo di Roma ed i concittadini che invece vogliono l’Italia. È interessata quasi esclusivamente alla classe operaia, non certo ai “borghesi”, fra i quali rientrano anche i ceti popolari urbani non proletari (artigiani, marittimi, pescatori). Tutti gli altri sono “nemici del popolo”, per i quali non c’è spazio nella Jugoslavia socialista.

Per di più, la politica della “fratellanza” voluta dai vertici del partito comunista, viene applicata da quadri provenienti in genere da Šušak, animati da volontà di conquista nazionale contro il “nemico storico” italiano. Le autorità prima promettono forme di autonomia, poi scelgono l’omogeneizzazione al resto della Jugoslavia ed il pugno di ferro sulla società. Le organizzazioni ufficiali degli italiani non servono a rappresentare le esigenze della comunità, ma a controllarla ed indirizzarla. Il “comunismo di guerra” porta fame e disoccupazione.

Di conseguenza, i rapporti fra i cittadini e i nuovi “poteri popolari” sono subito pessimi. Opporsi non è possibile: i pochi che ci provano – soprattutto studenti – vengono immediatamente incarcerati o liquidati “per via amministrativa”. Comincia a partire per l’Italia, nonostante numerose difficoltà burocratiche, chi è troppo legato al precedente regime o troppo inviso a quello nuovo; se ne vanno i pubblici dipendenti largamente epurati; i professionisti che non hanno più una clientela; i commercianti che non hanno più di che lavorare; i negozianti che non hanno niente da vendere; i marinai senza imbarco; gli artigiani considerati come capitani d’industria. Le famiglie mettono al sicuro i ragazzi, perché andare a scuola significa andare a cercare guai. Ma partono anche operai, che non si riconoscono nel comunismo in versione croata e dopo che alcuni sindacalisti hanno fatto una brutta fine.

Nell’estate del 1948 entra in vigore la clausola del trattato di pace che riconosce ai residenti nei territori passati alla sovranità jugoslava che siano di madrelingua italiana, la facoltà di optare per la cittadinanza italiana e trasferirsi legalmente in Italia. L’opzione rappresenta la valvola di sfogo per tutte le tensioni accumulate nel dopoguerra e svuota la città. Ne approfitta anche quel che rimane della classe operaia, perché nel frattempo è scoppiata la crisi del Cominform e Tito è stato “scomunicato” da Stalin.

L’ultimo atto arriva nell’autunno 1953. Fiume e Šušak sono già state unificate in una sola città e gli italiani sono andati via quasi tutti, ma l’immagine del centro storico è ancora bilingue. Durante l’ennesima crisi fra Italia e Jugoslavia per l’ancor irrisolta questione di Trieste, una folla tumultuante distrugge a Fiume le ultime targhe, insegne, lapidi, scritte in italiano. Da quel momento Rijeka è una città integralmente jugoslava.

Quali sono le conseguenze dell’annessione di Fiume alla Jugoslavia per la popolazione italiana?

Come abbiamo visto, la quasi totalità della popolazione italiana prende la via dell’esodo e sperimenterà poi le asprezze dell’esilio, come tutti gli altri profughi giuliano-dalmati. A questo flusso in partenza se ne contrappone però uno in entrata, di dimensioni assai minori: è il cosiddetto “controesodo”, anche se la definizione è esagerata. Si tratta di alcune migliaia di operai dei cantieri di Monfalcone, di lingua italiana e profondi convincimenti comunisti, che negli anni precedenti si sono battuti a fondo per l’annessione di tutta la Venezia Giulia alla Jugoslavia. Quando invece il trattato di pace, che entra in vigore il 15 settembre 1947, assegna Monfalcone all’Italia, gli operai cominciano a trasferirsi in Jugoslavia, patria del socialismo, ed in particolare a Fiume, dove vanno a riempire i vuoti lasciati dalle maestranze locali, esodate in Italia. Vengono accolti benissimo, alloggiati nelle case lasciate libere dai profughi e portati in palma di mano per le loro capacità lavorative.

Poi però scoppia il dramma, cioè la crisi del Cominform, ed i monfalconesi, stalinisti fino al midollo, si ritrovano di colpo trasformati da “eroi del socialismo” in “nemici del popolo”. I loro capi vengono imprigionati a spediti nell’inferno di Goli Otok (Isola Calva), un campo di “rieducazione” in cui i “cominformisti” vengono riformattati a suon di botte, fino a quando, per testimoniare il loro ravvedimento, non sono pronti a trasformarsi a loro volta in carnefici di sempre nuove vittime. Agli altri non resta che tornare con la coda tra le gambe in Italia, dove peraltro non trovano più il lavoro che hanno lasciato, le autorità li guardano con palese sospetto (“ve lo siete goduti, eh, il paradiso del socialismo” li sfottono) ed anche il partito comunista li trova imbarazzanti.

A oltre un quarto di secolo dall’ingresso di Fiume nella nuova Croazia indipendente, quale bilancio storiografico si può trarre delle vicende fiumane?

Per decenni, durante il periodo jugoslavo e un po’ dopo, Fiume ha trovato scarsa fortuna nella storiografia, perché la sua era una delle storie scomode del 2° dopoguerra, come tutte quelle delle regioni site al confine orientale d’Italia. Per Fiume naturalmente la macroscopica eccezione è costituta dall’impresa di D’Annunzio, che ha invece prodotto montagne di carta, ma la vicenda della città è rimasta in genere sullo sfondo, a far da palcoscenico per la grande rappresentazione del poeta e dei suoi legionari.

Ad evitare il silenzio è stata soprattutto la società di studi fiumani (erede dell’omonimo istituto sorto a Fiume nel 1923), che ha continuato ad approfondire la storia di Fiume ed a pubblicare l’omonima rivista. Scomparsa la Jugoslavia, la medesima società è riuscita a promuovere forme importanti di collaborazione con gli studiosi croati, come una ricerca congiunta sulle vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-47). In questo secolo, un contributo fondamentale al progresso delle conoscenze è arrivato dal Muzej Grada Rijeke, che ha promosso pubblicazioni assai significative, di taglio scientifico e divulgativo.

Nel 2019 cadrà il centenario dell’avventura dannunziana e nel 2020 Rijeka sarà città europea della cultura. Si tratta di occasioni importanti per riscoprire tutto lo spessore storico della città più meridionale della Mitteleuropa, ma anche per inserire il caso fiumano nel contesto delle città che dalle grandi crisi novecentesche sono uscite completamente trasformate, vuoi perché materialmente distrutte e riedificate ex novo, vuoi perché cambiate nella loro identità linguistica e culturale e depauperate di quella pluralità che costituiva la loro maggiore ricchezza.