Martedì, 25 Marzo 2014
Relatori conviviali

Il SITO INQUINATO DI TRIESTE - Relatore Dr. Luciano Luciani

In questi ultimi 12 anni mi avrete sentito parlare spesso di quella che per me è un’ossessione, il Sito Inquinato di Interesse Nazionale di Trieste, e ritengo ne siate assolutamente saturi. Il nostro presidente però mi ha invitato a tornare sull’argomento, e forse vi potrà interessare una esposizione organica e (quasi) completa in merito ad uno dei tanti ostacoli che rallentano lo sviluppo della nostra città.

Essendo vittima e parte interessata al problema, potrei avere una visione distorta della vicenda, ma vi assicuro che tenterò di mantenere equilibrata ed asettica la mia esposizione, ed i dati che vi fornirò sono documentati quasi senza eccezione.

Nei primi anni ’90 i burocrati di Bruxelles cercarono di definire ed uniformare le norme vigenti in alcuni stati europei relativamente al trattamento dei rifiuti pericolosi, e particolarmente alle loro discariche, che costituivano un concreto rischio ambientale per il possibile dilavamento ed immissione nei corsi d’acqua di vari veleni. A questo proposito ricordo il colore bruno carico dell’acqua dell’Olona, fiume in Brianza, che negli anni ’50 riceveva tutti gli scarichi liquidi, tanto gli urbani che quelli industriali, delle concerie e simili.

Lo stato italiano, recepita la direttiva della CEE, approvava
nel 1999 una legge (la 471), ma ne modificava parzialmente
lo spirito, estendendo il concetto dell’obbligo di bonificare
non solo le reali discariche di rifiuti pericolosi, ma anche le aree genericamente inquinate, e cioè anche quelle in cui nessuno aveva intenzionalmente accumulato rifiuti, ma che avrebbero potuto comunque causare qualche effetto negativo sull’ambiente.
E per giudicare se un’area, che pur non avendo funzionato come discarica riconosciuta, sia comunque inquinata e da bonificare, il Ministero dell’Ambiente italiano, invece di definire delle linee guida (come la compilazione della cosiddetta “indagine di rischio”), ha preferito fissare in modo categorico valori limite per le concentrazioni delle sostanze, elementi o composti chimici, che la CEE aveva elencato a suo tempo, presenti nell’area stessa e nelle acque di falda sottostanti.

Questi limiti sono stati però adottati a valori assolutamente fantasiosi, forse per motivi ideologici (tipo “l’uomo sta modificando l’ambiente e distruggerà il mondo”) o forse anche per mantenere il potere sui sudditi (quando la legge è tale da non poter essere rispettata, il funzionario ha potere intimidatorio su chi cade sotto il suo controllo).

Alcune concentrazioni fissate nelle tabelle sono tanto piccole da non essere rilevabili dai metodi analitici accreditati (come 1,2,3,tricloropropano, con limite a 0,001 microgrammi/lt cioè a 1 parte per miliardo), ed altre concentrazioni sono considerate inquinanti pur essendo nettamente inferiori a quelle naturali con cui l’uomo convive da millenni (come il Manganese con concentrazione pericolosa a 1/3 del valore naturale delle acque di tutto il Triveneto, ed il Boro con concentrazione inquinante a una parte per milione mentre esso è da sempre presente nell’acqua del mare alla concentrazione di 3 parti per milione).

In presenza di questa legge poco precisa e molto velleitaria e nell’illusione che nella crociata per la difesa dell’ambiente la comunità avrebbe messo a disposizione somme favolose, inizia la gara all’aumento delle aree da esaminare: dovesse un sito risultare inquinato, qualcuno, che si tratti della CEE o dello stato o dei proprietari delle aree, dovrà per forza provvedere ad effettuare i costosissimi lavori di bonifica, e di conseguenza a qualche pubblico amministratore spetterà l’onere di dirigere questi lavori e di amministrare il danaro necessario: quale migliore occasione per trovarsi nel posto giusto e gestire questi soldi?

Si deve premettere che i lavori di bonifica, ossia di pulizia del terreno e delle acque, sono lavori costosi ma relativamente non codificati e con risultati incerti e non immediatamente verificabili, e quindi lavori in cui molto facilmente possono avvenire malversazioni.

Allora tanto le autorità centrali del Ministero dell’Ambiente, quanto le autorità locali hanno cercato di ampliare il più possibile il numero e l’estensione dei siti inquinati, denominandoli “di interesse nazionale”. Oltre ai siti ovvii, come Marghera e Priolo con le loro industrie chimiche, anche Trieste non doveva essere da meno, avendo avuto la prima raffineria di petrolio in Italia (anche se nel 1896 era Austria), pur anche se inattiva da anni, e con terreni che non facevano e non fanno male a nessuno.

Il sito di Trieste è stato quindi ampliato dalle inizialmente considerate aree delle raffinerie dismesse (Aquila ed Esso) e dalle piccole singole discariche di rifiuti urbani ormai non più in uso da decenni, e delimitato comprendendo praticamente tutta la zona industriale per oltre 500 ettari (ma, chissà perché, lasciando fuori senza ragioni palesi le aree a monte della via Flavia e quelle situate nel comune di San Dorligo), ed in più anche 1200 ettari di superficie marina.

È stata anche disattesa la prescrizione della legge nazionale sopra citata secondo cui prima di definire un’area “sito inquinato” si sarebbe dovuto disporre di una serie di sondaggi preliminari, che in realtà sono stati eseguiti solo in una minima porzione della zona, senza che i relativi risultati analitici siano stati divulgati.

Dopo questa famigerata perimetrazione, con decreto del 24 febbraio 2003, è iniziato il calvario: i proprietari dei terreni inclusi avrebbero dovuto far effettuare immediatamente sotto controllo dei funzionari statali le costose analisi di caratterizzazione, e procedere poi alla bonifica di quanto pericoloso, e nel frattempo comunque nessuna modifica agli stabilimenti industriali, che implicasse movimentazione di terra, poteva essere autorizzata senza che prima fosse stata ottenuta dal Ministero la sospirata “restituzione agli usi legittimi”.

Si tratta quindi di un sostanziale esproprio, unito all’obbligo di sopportare ingenti spese di analisi, con la prospettiva di essere in futuro costretti a pagare le costosissime bonifiche.

Come alcune altre più importanti realtà industriali, anche noi della ALDER nel 2004 abbiamo fatto eseguire con tutti i crismi le analisi ufficiali del nostro terreno ed abbiamo trovato quello che ci si poteva aspettare, e cioè che non c’era nulla di realmente pericoloso.
Come è noto la massima parte del terreno della zona industriale deriva da antiche saline impaludate negli ultimi 2 secoli e riempite al tempo del governo militare alleato con materiali di varia origine sia provenienti dalle allora disabitate colline circostanti (Monte d’Oro e Giarizzole) sia dalle case cittadine distrutte dai bombardamenti durante la guerra. In sostanza il nostro terreno si presentava più pulito di quello che si sarebbe potuto analizzare in piazza Unità o in città vecchia, dove la presenza umana per millenni ha sicuramente lasciato maggiori tracce di inquinamento.

Secondo gli esagerati criteri di valutazione delle concentrazioni inquinanti voluti dal Ministero come ho detto in precedenza, alcuni dei campioni di terra analizzati potevano dare qualche preoccupazione, e quindi, per non avere ulteriori problemi, ho deciso, d’accordo con i funzionari locali, di allontanare integralmente tutta la terra sospetta, caricando due autotreni di materiale definito “non inquinato ma proveniente da sito potenzialmente inquinato”: i due autotreni sono stati scaricati, con le spese a nostro carico, in una discarica autorizzata (nei pressi di Treviso), che certamente avrà rivenduto la terra senza effettuarne alcun trattamento ma con doppio guadagno: sia da noi per riceverla, che da qualche terzo a cui venderla.

Pensavo in quel momento (eravamo già nel 2006), dopo aver speso oltre 50.000 € a vuoto, di aver risolto il problema e di poter rientrare nel pieno possesso dello stabilimento della mia società, ma mi sbagliavo.

Su suggerimento di un oscuro funzionario del comune di Trieste, il Ministero, pur avendo già approvato la caratterizzazione e preso atto della bonifica da noi effettuate, ci impose l’ulteriore compito di analizzare nel nostro terreno anche la formaldeide gassosa, adottando un valore limite di inquinamento al livello estremamente basso fissato per il benzolo (sarebbe come affermare che il petrolio inquina come l’aranciata) e senza pensare che analizzare un gas nel terreno non è proprio tanto agevole: inoltre la formaldeide (che a tanti ignoranti fa molta paura) comunque non può essere considerata un inquinante persistente, dato che essa nell’ambiente si degrada molto velocemente.

Abbiamo dovuto ricorrere al TAR contro questa imposizione e, dopo quasi 2 anni il TAR ci ha dato piena ragione, ma naturalmente con spese compensate e quindi con un onere a nostro carico non indifferente. Il Ministero non ha fatto ricorso, probabilmente rendendosi conto dell’assurdità della pretesa, ma comunque si è comportato nei successivi contatti come se la sentenza del TAR ad esso sfavorevole non fosse mai stata emessa.

Peraltro il Ministero dell’Ambiente non aveva alcuna intenzione di riconoscere la sostanziale infondatezza della definizione di sito inquinato per la zona in cui si trova il mio stabilimento.
Infatti un alto funzionario del Ministero dell’Ambiente (che si dice in seguito sarebbe stato indagato dalla magistratura per concussione, condannato in via definitiva ai domiciliari e messo in pensione) aveva altri programmi per il sito di Trieste, che lui considerava comunque pericolosamente inquinato.

In quel tempo si minacciavano i proprietari dei terreni sotto esame di essere chiamati a risarcire allo stato il cosiddetto “danno ambientale”, indipendentemente dal fatto che essi avessero realmente inquinato, o che l’inquinamento fosse ascrivibile ad altri, tanto privati che enti pubblici. E nessuno sapeva come sarebbe stato valutato questo “danno ambientale”, ma si vociferava di possibili importi da capogiro, dell’ordine delle decine di milioni di Euro.

Quando la faccenda del danno ambientale da addossare a tutti i proprietari è apparsa palesemente assurda ed illegale, quel beneamato funzionario ha avuto un’altra pensata: visto che le acque piovane e della falda acquifera finiscono in mare, e se esse fossero inquinate avrebbero portato gli inquinanti nel golfo di Trieste, questo eventuale delitto avrebbe dovuto essere prevenuto, e quindi si sarebbe dovuto costruire sul bagnasciuga (lungo 14 km) una barriera muraria, profonda almeno 20 mt, con un costo stimato in 236 milioni di Euro. Questa barriera avrebbe dovuto bloccare tutta l’acqua, che poi, sempre a spese dei proprietari dei terreni, sarebbe stata prelevata a mezzo di pozzi adatti e pompata in un qualche impianto di trattamento (magari realizzato a qualche decina di km di distanza), in modo che in mare sarebbe arrivata soltanto acqua bevibile.

Il progetto era assolutamente risibile, a parte il suo costo, perché la barriera per essere efficace avrebbe dovuto essere profonda almeno 50 mt, con un costo quindi di almeno mezzo miliardo, ed il costo del trattamento sarebbe risultato pari ad almeno 3 volte quanto il comune di Trieste spende per fornirci l’acqua potabile.

Chiaramente questo progetto non avrebbe mai visto la luce, ma quel alto funzionario, sempre nei panni del disinteressato salvatore dell’ambiente e protettore della salute pubblica, aveva pianificato il seguente programma:

L’importo di 236 milioni di € avrebbe dovuto essere elargito dai proprietari dei terreni del sito 
inquinato di interesse nazionale;

La somma sarebbe stata suddivisa in 3 parti : un terzo a carico di chi aveva inquinato, un terzo a carico 
degli innocenti, ed un terzo a carico di chi non aveva ancora inquinato, ma che avrebbe potuto farlo. E la terza categoria naturalmente sarebbe stata composta solo dalle due piccole industrie chimiche presenti nell’area, in altre parole io avrei dovuto tirare fuori la metà di un terzo di 236 milioni, e cioè quasi 40 milioni di Euro;

Ma non è finita. La somma in questione sarebbe stata riscossa ed amministrata per la realizzazione della fantomatica barriera da una società di diritto privato e di proprietà del Ministero dell’Ambiente. E chi ne sarebbe stato il presidente? Indovinate un po’, lo stesso funzionario ideatore del programmino.

Purtroppo, invece di sbattere subito in galera quel tale, i politici romani e locali, fra cui il deputato triestino a quel tempo sottosegretario, gli hanno dato ampia corda, stigmatizzando come nemico dell’ambiente e quindi del popolo chi osava opporsi alla faccenda o solo rilevarne l’assurdità.

Forse ricordate che l’argomento era stato considerato plausibile in conversazioni nei Rotary locali, ed anche un politico, già sindaco della nostra città, aveva osato affermare che il sito inquinato di interesse nazionale poteva costituire una magnifica opportunità per chi, acquistando a buon prezzo un terreno inquinato, avrebbe potuto venderlo dopo la bonifica e realizzare un elevato guadagno.

Tutto ciò è fortunatamente passato, ma il Ministero dell’Ambiente, dopo il breve periodo in cui ne era a capo Clini, che in precedenza era stato funzionario dello stesso ministero, pari grado al delinquente sopra citato, persiste ancora nel non ammettere che l’istituzione del sito inquinato di Trieste sia stata inutile (i politici responsabili di quel tempo possono pur sempre essere incriminati per danno erariale, avendo impedito o rallentato l’espandersi delle attività industriali locali, con mancato vantaggio per l’erario sotto forma di tasse e di occupazione).

Ed anche gli attuali politici locali continuano pur sempre, a distanza di oltre 11 anni, a gingillarsi ed a spendere danaro pubblico per analizzare i suoli, pur sapendo che nella nostra zona industriale non sussiste alcun reale pericolo per gli abitanti e per l’ambiente, indipendentemente dall’eventuale modesto superamento degli assurdi valori limite a suo tempo adottati dal Ministero di Roma.